20 foto, 8 ricordi ed un breve saggio per ricordare il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro

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Preambolo: Due morti che hanno cambiato la storia

 del nostro paese.

Il 6 aprile del 1924 sul lungo Tevere Arnaldo da Brescia a Roma viene rapito Giacomo Matteotti, ritrovato morto il 10 giugno dello stesso anno. Il 16 marzo del 19

 

78 in via Fani a Roma viene rapito Aldo Moro, ritrovato morto il 9 maggio dello stesso anno.

Due storie parallele, due orrendi delitti perpetrati da squadristi, avvenuti in due primavere a distanza di 50 anni.

Due morti che hanno cambiato la storia del nostro paese.  

 

C’è ancora un’altra storia da narrare: quando dopo la guerra si cominciò a commemorare la morte di Matteotti, cosa ricordarono quelli che avevano vissuto quei fatti ? E come i più giovani che non c’erano o erano all’epoca bambini cominciarono a sapere ed a ricostruire questo faticoso cammino verso la democrazia?

E così chi era cosciente nel 1978 cosa ricorda di quei fatti? Come li ha vissuti? 

 Questo piccolo contributo tra le memorie di quella primavera del ‘78 degli iscritti del Circolo del Partito Democratico di Cannaregio vuole essere un semplice ritrovarsi nelle emozioni di quella mattina di chi c’era, ed un piccolo promemoria per la generazione dei quarantenni allora bambini ed a quelli ancora più giovani che sono arrivati dopo.

Sono tutte brevi memorie a partire dal quotidiano di quella mattina in cui scoprimmo che eravamo ufficialmente “negli anni di piombo”.

La nostra iscritta Danis Frigato ha donato, dalla sua raccolta privata, delle foto che raccontano in quella mattina del 16 marzo, di un’improvvisa manifestazione spontanea di cittadini che con bandiere rosse e bianche, tutti insieme da San Leonardo si diressero lungo la Strada Nova verso il Rialto per arrivare sotto il palazzo che ospitava allora la sede regionale della Democrazia Cristiana e poi coralmente in piazza San Marco.

Ai giovani vogliamo dire, in questo nostro paese abbiamo sempre passato momenti drammatici e ne siamo sempre venuti fuori.

Marina Rodinò – Segretaria del Circolo PD di Cannaregio, Venezia

 

“Italiensk leader Aldo Moro kidnappet från rote brigaden”.

Mariolina Toniolo

Il 16 marzo 1978 mi trovavo a Stoccolma, oziosa moglie al seguito di un marito lavoratore. Girando per la città, avevo avuto varie occasioni di scambiare due parole con gente del luogo (gli Svedesi sono taciturni, ma non aspettano altro che qualche terrone con cui chiacchierare) e tutti, saputo che venivo dall’Italia, sottolineavano il difficile momento che stava attraversando il nostro paese. Io li tranquillizzavo, dicevo che tutto era business as usual (chissà che cosa avranno pensato) solo perché loro avevano sentito le notizie e io no.

Poi sono entrata in una tabaccheria per comprare qualcosa e, sul bancone, erano in mostra i giornali della sera, con titoli cubitali comprensibili anche a chi non sa lo svedese: “Italiensk leader Aldo Moro kidnappet från rote brigaden”.

Ripensandoci ora, è immediato misurare come è cambiata la velocità con cui arrivano le notizie, ma la cosa che veramente colpisce è quanto le persone di quel paese allora così remoto partecipassero alle nostre vicende. La Svezia non faceva parte della CEE; era, per sud-europei come noi, veramente un mondo a parte sotto mille aspetti; gli Svedesi di allora ne erano assolutamente (e fieramente) consapevoli, ma si sentivano parte con noi di un unico destino.

 

Le Brigate rosse sembravano aver vinto lo Stato democratico

Laura Puppini

La notizia del rapimento di Moro l’appresi da un collega verso la tarda mattinata. Allora non c’erano né internet, né telefonini.

Terminato il lavoro mi  precipitai a casa per avere notizie più dettagliate da radio e televisione. I giornali radio si succedevano continuamente.

Mi aveva colto un’angoscia profonda, le Brigate rosse sembravano aver vinto lo Stato democratico. Mi aveva colpito anche l’uccisione di tutta la scorta fatta con freddezza e determinazione.

Ricordo anche i giorni successivi al rapimento, i proclami delle BR con la stella a cinque punte e soprattutto quella foto del volto di Moro – così drammatica – con alle spalle il simbolo delle Brigate rosse e poi il ritrovamento del suo cadavere rannicchiato dentro  una Renault parcheggiata in via Caetani dopo cinquantacinque giorni di prigionia.

La morte di Moro sembrava la vittoria delle BR, ma quello fu l’inizio della loro fine perché tutte le istituzioni, i sindacati e i partiti di qualsiasi colore politico e, soprattutto il popolo italiano, li condannarono e  furono contro di loro.

 

Che cosa ho visto?

Marina Rodinò

La mattina del 16 marzo del 1978 ero a casa a Roma nello stesso quartiere di via Fani, nella stessa strada dove le auto dei terroristi sono passate dopo il sequestro, ed a pochi metri dal garage dove si nascosero per alcune ore i terroristi con lo stesso Moro.

Ho saputo dalla radio dell’attentato in via Fani e del rapimento di Aldo Moro, ed ovviamente dell’uccisione della sua scorta.

Aldo Moro era uscito da pochi minuti dalla parrocchia dove aveva ascoltato la messa e dove c’era la sede del mio gruppo scout. La famiglia Moro viveva nella zona ed era in certo qual modo parte della nostra quotidianità.

La sensazione che fosse accaduto qualcosa di gravissimo mi è caduta addosso come una cappa di nebbia pesante. Ora va detto che a Roma all’epoca purtroppo eravamo “abituati” a giudici gambizzati ed attentati di vario tipo. Sembra incredibile ma stavamo vivendo un giorno dopo l’altro gli anni di piombo, ed ovviamente  ne avevamo una percezione relativa. Quella mattina è stato decisamente diverso, perchè era sotto casa, perché ci sembrava impossibile che potesse essere rapita una personalità come quella di Aldo Moro, perché non capivo come mai tra tutti i politici fosse stato attaccato proprio lui, che ai miei occhi di ragazzetta ingenua ed anche ignorantella, mi appariva una persona aperta, non dogmatica, non oscurantista. (insomma non era mica Almirante!),

Per tutto il giorno la polizia ha controllato casa per casa, e garage per garage. Ma il garage di via della Balduina dove si erano nascosti non lo ha evidentemente controllato. Ricordo scene da film con i poliziotti che accerchiavano i palazzi ed avviavano i controlli, ma quel palazzo lì non lo hanno accerchiato, evidentemente. A sera sono uscita a passeggio con la mia cagnetta e con il mio ragazzo, due passi serali dopo un giorno da incubo. In fondo alla mia strada davanti alla parete di un giardino  delle macchine ferme con gli sportelli aperti. Avvicinandoci ecco degli uomini con vistosi giacconi a scacchi, si sentivano provenire dall’interno delle macchine i suoni di autoradio come quelli della polizia, ancora più da vicino gli uomini avevano dei mitra e sulla parete del giardino dipingevano con delle bombolette delle falci e martello. “Ma che state facendo?” – “Siamo del comune e stiamo pulendo” – “Non state pulendo state scrivendo?” , “Sparite, andate via”.

Ho avuto paura, sono andata via…ma quarant’anni dopo mi domando: Che cosa ho visto?

 

Subito una assemblea autoconvocata

Sergio Steffenoni

Ero da poco laureato in medicina e al seguito del codazzo si stava facendo il giro dei pazienti nelle stanze di degenza della clinica neurologica di Verona. Televisione accesa nel soggiorno del reparto, arriva un degente che annuncia il sequestro e la strage della scorta.

La prima impressione fu di sconcerto e incredulità. Tutti pazienti, medici infermieri davanti alla televisione e poi subito una assemblea autoconvocata di tutti i presenti con analisi e conseguenze  per almeno 2 ore. Ecco la cosa che tuttora mi colpisce fu la risposta politica immediata sul posto di lavoro.

…Abbiamo capito quanto buio stava calando

Francesca Maggiolo

Ero con alcuni amici all’Alpe di Siusi tutti studenti universitari, tutti più o meno politicizzati; sole, neve, sci, risate, amori, a tutto pensavamo in quei giorni tranne che a leggere i giornali o ascoltare la radio (nella casa che ci ospitava non c’era la TV).

Quel giorno, stanchi per le sciate, verso sera uno di noi telefonò al padre, direttore di una importante banca; fu così che sapemmo del rapimento.
Il nostro amico ci raccontò che suo padre, molto preoccupato, gli (ci) aveva dato degli incoscienti, ignoranti che vivevano fuori dal mondo e che non si rendevano conto di quello che stava avvenendo in quel periodo in Italia.

La “sgridata” fu salutare, dal giorno dopo comprammo un quotidiano; certo la notizia ci aveva colpito ma devo confessare che solo in seguito, nell’affanno dei giorni successivi abbiamo capito quanto buio stava calando.

Da quasi subito in noi la certezza che Moro non se la sarebbe cavata, che le B.R. non lo avrebbero restituito vivo; nessuno di noi era democristiano, anzi, ma provammo pietà per la scorta ammazzata brutalmente e angoscia per lo statista.

Eravamo convinti che non si dovesse cedere; però ricordo anche l’intima sensazione che qualcosa mi sfuggisse, che non “ce la raccontassero tutta”.

 

Non apparve subito come un avvenimento simile agli altri

Sandra Carnio

Quello che accadde 40 anni fa, non apparve subito come un avvenimento simile agli altri anche se ci avevano non dico abituato ma allertato che il clima era diventato feroce. Nel corso degli anni poi il caso si è caricato via via di significati simbolici che ancora oggi con significati alterni ci tormentano, cito per tutti le “convergenze parallele”, per cui è difficile scindere cosa si provò allora  da quanto si venne a saper dopo.

Del caso Moro più che l’orrore provato per  l’agguato in  Via Fani  ricordo il momento in cui ci raggiunse la notizia del rinvenimento del suo corpo. Mi trovavo a Ravenna in gita scolastica con la classe di mio figlio Giacomo che era in quinta elementare. La maestra molto impegnata socialmente aveva organizzato la visita con l’intento di poter portare anche alcune mamme e mi aveva pregato di partecipare come rappresentante dei genitori. Al momento di ritrovarsi all’autobus per il ritorno a Venezia, si cominciarono a sentire da ogni parte sirene della polizia che ci preoccuparono non poco; non era ancora il tempo dei cellulari e apprendemmo la notizia solo dal conducente dell’autobus che ci suggerì di partire al più presto per non essere bloccati da manifestazioni improvvisate.

Ci fu tra tutti un senso di smarrimento, di precarietà e tutti  i bambini, in modo particolare quelli che non avevano con sé la loro mamma , un grande desiderio ritornare a casa.

 

Nel mondo giovanile erano radicate posizioni favorevoli alla lotta armata

Antonio Rosino

Non ricordo chi mi avvisò quella mattina a scuola del rapimento di Aldo Moro e dell’assassinio della scorta. Mi pare che fu il custode del Vendramin Corner, l’istituto tecnico femminile in cui insegnavo allora: un caro amico e un compagno, “comunista libertario” come si considerava. Di lui conservo ancora la cravatta rossa che mi regalò e che esibisco quando, il 25 aprile e il 1° maggio, espongo il tricolore sulla mia terrazza che dà sulla Strada Nuova.

Immediatamente avvisai Toni Socal, collega di pedagogia e filosofia, che era con me nel consiglio d’istituto, e consultati le colleghe e i colleghi presenti, bloccammo, preside consenziente, le lezioni convocando un’assemblea studentesca straordinaria. Dall’assemblea emersero, minoritarie ma evidenti, anche posizioni compiacenti nei confronti delle BR, compreso il gesto con la mano tipo P38. Eravamo stupefatti: se perfino in una scuola esclusivamente femminile, con una provenienza maggioritaria di studentesse provenienti dalla provincia e non dal centro storico di Venezia si coglievano segni del genere, era evidente che nel mondo giovanile erano radicate posizioni favorevoli alla lotta armata che dovevamo combattere in modo esplicito e forte.

Così lanciammo l’idea di un’assemblea plenaria su terrorismo, leggi speciali, compresa la cosiddetta “legge Reale”, e la necessità dell’azione delle forze dell’ordine e io proposi di far intervenire all’assemblea un poliziotto: Riccardo Ambrosini.

Io e mia moglie Cristina avevamo conosciuto Riccardo durante la campagna per la smilitarizzazione della polizia e la lotta per la legalizzazione del sindacato di polizia di cui era stato un promotore infaticabile. Era lui che mi passava i volantini che anche al mattino fra le sei e le sette andavo a distribuire davanti alla caserma di Piazzale Roma (ora sede della questura di Venezia) prima di andare a scuola o con Cristina in giro per Venezia, come per esempio davanti alla caserma della guardia di finanza in campo San Polo. Era un ufficiale di polizia con un senso dello Stato e una concezione della giustizia talmente radicati da non lasciare spazio nella sua coscienza a nessun tipo di compromesso, come quando, dopo il rapimento e la brillante liberazione del generale Dozier da parte dei NOCS, denunciò i colleghi per aver superato i limiti consentiti dalla legge durante gli interrogatori successivi all’arresto dei terroristi, denuncia che gli portò feroci ed ingiustificate critiche negli ambienti conservatori.

Il consiglio di istituto e il collegio dei docenti approvarono l’iniziativa. La partecipazione e l’intervento di Riccardo all’assemblea furono uno straordinario successo. Ebbero un impatto notevole sull’intero movimento studentesco veneziano ed effetti duraturi.

Ne ricordo solo uno: fra il 1989 e il 1990 in occasione delle cerimonie per il gemellaggio fra Venezia e Tallinn, sembrava ci dovesse essere nella futura capitale dell’Estonia, allora ancora una delle 15 repubbliche dell’URSS, l’incontro scacchistico di ritorno fra le squadre delle due città e dovetti, in fretta e furia (e fuori orario con una richiesta urgente partita dal Comune) andare in questura a San Lorenzo per accelerare il rinnovo del mio passaporto. Mentre aspettavo sentii alle mie spalle qualcuno che mi pose delicatamente le mani sugli occhi e una perentoria domanda: “Chi sono?”. Era una mia scolara del Vendramin Corner che mi presentò ai colleghi ricordando che per merito mio aveva sentito parlare Riccardo ed era nata la sua vocazione di entrare in polizia. Confesso che ne sono ancor oggi molto orgoglioso.

Purtroppo Riccardo fu colpito da un male che lo stroncò ancora giovane. Rimane su di lui un libro: “Riccardo Ambrosini. Le parole di una vita. Ricordo di un poliziotto che voleva un paese migliore”.

 

Non sapevo come sarebbe andata a finire

Mario Milazzo

Ricordo bene quel mattino: 4 giorni dopo era prevista la mia laurea. Avevo infatti anticipato un po’ la partenza per il servizio militare e, dopo il periodo del corso di addestramento, ero stato destinato ad una Caserma di Bologna. Come previsto, quella mattina passai in Fureria per vedere se era stata firmata la mia licenza (a quel tempo, per l’esame di laurea, era prevista una licenza di 5 giorni). La notizia del rapimento dell’On. Moro arrivò in Caserma poco dopo che il fatto si era verificato. Poiché i rapporti erano abbastanza buoni, ricordo che il Tenente che comandava il Reparto mi chiamò e mi consegnò la licenza con un certo anticipo. Mi ordinò poi di uscire subito (“Vai: devi laurearti …”), in quanto, a suo avviso, sarebbe arrivato più tardi il blocco delle licenze, a scopo preventivo, “almeno per alcuni giorni”. Lo ringraziai e, rivestito in borghese, uscii dalla Porta Carraia.

Bologna, in quegli anni, era molto sensibile agli avvenimento politici; il dibattito nelle sezioni e nei circoli dei vari partiti era intenso. Anche in città, vuoi per le edizioni straordinarie dei giornali (l’Unità e il Resto del Carlino si vendevano per strada), vuoi per l’agitazione delle gente che discuteva nei Bar, si percepiva una tensione insolita. Si parlava di colpo di Stato (e chissà …). Non sapevo come sarebbe andata a finire, ma ero davvero meravigliato che si potesse arrivare a tanto.

Mi recai all’Università per incontrare il mio Relatore; avremmo dovuto discutere degli ultimi particolari, ma la maggior parte del tempo lo passai ad ascoltarlo; era un Docente giovane, ma già più anziano di me e mi intrattenne sulla gravità del fatto. Tutti avevano voglia di discutere, all’Università come per strada.

Terminato l’incontro, mi recai in Stazione che, solamente qualche anno dopo, sarebbe stata sfregiata dalla strage.  Partii per Rovigo dove avrei trascorso i giorni di licenza in famiglia; l’atmosfera della mia piccola città era più tranquilla, com’era naturale. Arrivato a casa, pur con un orecchio alla radio e ai telegiornali, salutai mia madre e notai che in casa tutto procedeva come al solito. Rientrai in una certa normalità e il pensiero della laurea, prevista di lì a qualche giorno, prese  il sopravvento.

 

LO STATO E ALDO MORO. Come ricordo il 16 marzo 1978.

Cino Casson

Il 16 marzo 1978 un gruppo di aderenti alla Brigate Rosse rapisce Aldo Moro e uccide i cinque uomini della sua scorta. Ne venni a conoscenza dal telegiornale e, sul momento, mi sembrò incredibile.

C’erano stati, negli anni precedenti, attentati – spesso di oscure origini – rapimenti, ferimenti e omicidi, ma mi sembrava impossibile che fosse colpito – come teorizzavano i capi dei brigatisti – “il cuore dello stato”. Perché Moro era lo stato, forse il più determinato dei leaders politici che avevano un progetto di lungo sguardo e largo orizzonte.

Non mi convinceva del tutto il progetto di Moro; condividevo la prospettiva di coinvolgere nel governo il Partito Comunista, anche per ridurre il “potere di coalizione” – e spesso di ricatto – del Partito Socialista di Craxi. Non mi convinceva, però, quello che stava alla base del disegno, l’incontro tra le due maggiori forze politiche, dotate di ampio consenso, ma carenti di cultura liberale.

Ero, come sono tutt’ora, un liberale di sinistra, la mia cultura era di tipo azionista ed ero un dirigente del Partito Repubblicano di Ugo La Malfa. Era stato La Malfa il primo ad “aprire”, nel Congresso di Genova del 1975, a un dialogo con il PCI di Enrico Berlinguer per superare la “conventio ad excludendum” che aveva tenuto i comunisti italiani fuori dall’area di governo. Poi la sua lungimiranza non ebbe l’esito sperato, perché il realismo politico di Berlinguer preferì proporre il “compromesso storico” alla Dc che lavorare a una possibile unità delle sinistre, socialiste e liberali.

Berlinguer stimava La Malfa, ma la sua cultura lo portava a ricercare intese con forze politiche “popolari”: il liberal-azionista La Malfa era troppo “elitario”. E, pur condividendo con il leader repubblicano una profonda avversione per Craxi, non sapeva dimenticare che Craxi era socialista: un parente sgradito, ma un parente: tutto un mondo di rapporti, da quelli elettorali a quelli sindacali, inducevano i comunisti a coltivare, comunque, maggior vicinanza politica con il PSI che con il PRI. Mentre La Malfa sentiva più intensamente l’affinità etica con l’austero Berlinguer che con il Craxi della “Milano da bere”.

Moro rappresentava, nella Democrazia Cristiana, il più convinto dell’operazione, anche se, un po’ per formazione e carattere, un po’ perché non godeva, nella DC, di un consenso analogo a quello di Berlinguer nel PCI, si muoveva con grande cautela. Non va dimenticato che Moro, fin dai tempi della Costituente, aveva mostrato grande attenzione – e suggerito molte formulazioni di compromesso – alle proposte del PCI.

Questa, credo – lungi da me fare lo storico – fu la ragione della scelta delle BR di colpire Aldo Moro; essi vedevano nell’accordo tra DC e PCI un fattore di stabilizzazione del sistema capitalista/imperialista delle Grandi Multinazionali, una specie di Spectre. E credevano, nella loro feroce insipienza, che la lotta armata avrebbe portato iscritti ed elettori del PCI ad abbandonare la strada indicata da Berlinguer e i molti, nella DC, che facevano la fronda a Moro a togliergli peso politico.

Ricordo il discorso, furente, appassionato, disarmonico, di Ugo La Malfa, alla Camera; giunse perfino ad invocare la pena di morte. Ne fui profondamente colpito. Nulla, nemmeno il più feroce dei delitti, giustificava la deroga a un principio etico (La Malfa, poi, si giustificò per le sue parole, dettate dalla profonda – e credo sincera – emozione).

Nei giorni e nelle settimane che seguirono, il dibattito politico, che coinvolse anche gran parte degli intellettuali, portò alla costituzione di due “partiti”, quello della “fermezza” e quello della “trattativa”. Nel primo si collocarono, con poche voci di timido dissenso, la Dc e il PCI, il secondo si coagulò intorno al PSI. A questa contrapposizione contribuirono le lettere di Moro, che i suoi carcerieri facevano periodicamente uscire dal covo. Lettere che qualcuno, soprattutto nella DC, tentò di derubricare a non rappresentative del reale pensiero di Moro, frutto di pressioni psicologiche e fors’anche fisiche.

A me Moro non era particolarmente simpatico, trovavo il suo linguaggio spesso soporifero, talvolta fumoso, ma le sue lettere me ne misero in luce un aspetto di grande umanità; la sua evidente paura, la sua fragilità di fronte alla condanna a morte che intuiva, la gravissima preoccupazione per la sua famiglia, mi inducevano a parteggiare per la trattativa. Al tempo stesso comprendevo le ragioni per le quali lo Stato non avrebbe potuto dare un riconoscimento alle BR, non avrebbe potuto considerarle equiordinate alle istituzioni, non avrebbe potuto trattarle come un nemico “bellico”.

Sono sempre stato favorevole alla trattativa nei casi individuali, a pagare il riscatto ai rapitori, a concedere denaro e salvacondotti ai banditi, pur di salvare una vita. Ma qui era in gioco lo Stato, non il patrimonio di una famiglia. Ancora oggi non ho una convinzione univoca. Nemmeno le nobili parole di Paolo VI – io non sono credente – ebbero effetto.

Ciò che, alla fine, mi portò a comprendere la linea della fermezza – con molti e permanenti dubbi – fu la luciferina convinzione dei brigatisti di rappresentare veramente una opzione politica, di essere, davvero, una avanguardia rivoluzionaria, in un paese storicamente refrattario ad ogni rivoluzione. Lo Stato doveva respingere questa convinzione.

Quali e quante oscurità si celavano, allora, e non sono state illuminate ancora oggi, quali coinvolgimenti di servizi, italiani e stranieri, non so. Alcune si possono facilmente presumere; certamente né gli Stati Uniti, né l’Unione Sovietica gradivano il “compromesso storico”; che abbiano svolto ruoli determinanti nella tragedia di Moro, però, non è mai state dimostrato.

Certamente il “caso Moro” ha cambiato la storia politica del nostro paese.

Un’ultima, forse scomoda, considerazione. I cinque uomini della scorta, vilmente massacrati nell’esercizio del loro dovere, sono stati troppo spesso descritti come “vittime innocenti”. Tutte le vittime sono innocenti. Chi è oggetto di una violenza non “se la cerca” mai. L’idea che un politico debba “mettere nel conto” il rischio della sua incolumità e della sua vita è aberrante.

Aldo Moro è “innocente” tanto quanto gli agenti uccisi, tanto quanto Falcone e Borsellino.

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