Essere vicini a chi ha paura

di Marina Rodinò

Nella cultura andina esiste una malattia ben definita: il “Susto” (la paura). Chi ne soffre viene sottoposto ad una serie di vere e proprie terapie previste dalla medicina tradizionale. 

Ora noi siamo in piena epidemia di “Susto” (paura), ma il nostro problema è che abbiamo perso la memoria tanto dei sintomi quanto dei protocolli per la cura.

La paura c’è, è inutile far finta di nulla: la paura di perdere il lavoro o non trovarlo e comunque di rimanere ancorati alla propria disperazione senza possibilità di mobilità sociale, paura di non raggiungere mai livelli di formazione adeguati ed anche in questo caso restare bloccati in un sistema d’istruzione che non è più un ascensore sociale ma spesso solo fonte de demotivazione e frustrazione. La paura di perdere la casa, di non poter aiutare i figli, di non poter assistere gli anziani. 

L’eco di questa paura aumenta le percezioni sull’insicurezza, si ripercuote in una sorta di palpito rancoroso e violento verso gli altri, in primis i più deboli (emigrati, diversi etc), poi in astio permanente verso chi in apparenza non soffre del morbo, chi palesa certa capacità resiliente e cerca di proporre soluzioni. Quest’ultimo è visto quasi come un untore che non fa che diffondere il contagio delle cause del male e contro di lui si scatena l’ira popolare. Spesso si perde di vista la realtà, basti pensare in questi giorni alla vicenda dell’ILVA: la soluzione proposta dal ministro Calenda avversata e demonizzata ed ora l’accordo del ministro Di Maio ne è di fatto una fotocopia….ma ora va bene.

Detto tutto questo se le reazioni alla paura sono spesso irrazionali, le cause della paura sono invece nella maggioranza dei casi reali; e qui entriamo in gioco noi: come dobbiamo “collocarci” in questo panorama? Ora personalmente trovo corretto non cedere all’isteria collettiva e mantenere questo nostro ruolo di sponda alla deriva biliosa/sovranista/populista/xenofobo/fascista, potenziare in tutte le sue manifestazione una resistenza civile e culturale e con coraggio affrontare la paura e cercare di smitizzarla per quello che si può. Questo però non vuol dire non porre attenzione sulle paure degli altri, anche perché altrimenti per davvero saremmo lontani dalla gente e richiusi in una sorta di auto rassicurante cerchio autoreferenziale.

Un esempio tra tutti (lo abbiamo proposto varie volte) una cosa siamo noi nella serena e sicura pax veneziana, un’altra è il nostro prossimo che vive per esempio in zone di periferia dove il disagio sociale è molto più intenso e la presenza di stranieri disperati aumenta l’insicurezza e la paura. 

Insomma rispetto allo slogan della per altro giustissima manifestazione del 30 a Roma “l’Italia che non ha paura”, io preferirei parafrasare una bellissima frase che si trova all’interno della basilica di Torcello “Io sono vicino a chi non ha paura e non sono lontano da chi ne ha”    (dal colpevole non sono lontano, ma al pentito sono vicino).


Sum deus atque caro, patris et sum matris imago, non piger ad lapsum set flentis proximus adsum

traduzione della frase:

Sono Dio e uomo, immagine del Padre e della Madre, dal colpevole non sono lontano, ma al pentito sono vicino.

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