L’Italia Bella

Guerra e dopoguerra – Ricordi di un bambino

di Marino Cortese

    Il giorno della liberazione di Venezia, il 28 aprile 1945, io avevo esattamente sei anni e mezzo e frequentavo la seconda elementare presso la scuola G. Zambelli, in palazzo Ariani, uno dei più straordinari edifici gotici di Venezia. all’Angelo Raffaele, proprio di fronte alla Chiesa, al di là del canale. Nonostante la fresca età, quelle giornate sono rimaste impresse nitidamente nella mia memoria, anche perchè vi sono riandato più volte con il ricordo.

        Prima di rievocare, però, gli episodi relativi alla fine della guerra, di cui sono stato testimone, sarà bene che io racconti un po’ di cosa sia stata la guerra per me, un bambino veneziano, che non aveva mai conosciuto l’anteguerra, il periodo di pace, e pensava istintivamente che fosse sempre stato così, che quello fosse il clima normale dell’esistenza.

        Le strade, la sera, erano buie, perchè vigeva l’oscuramento: al tramonto venivano chiuse le imposte e, dove queste non c’erano o non arrivavano, si era incollata della pesante carta blu scuro ai vetri delle finestre. I lampioni dell’illuminazione pubblica erano completamente anneriti e la luce, già fioca di per sé, filtrava verso il basso attraverso una stretta fessura rettangolare, ed era appena sufficiente per non finire in canale.

         Ad un certo momento all’oscuramento si aggiunse il coprifuoco, ma io facevo molta confusione tra i due concetti, salvo che mia madre era molto in ansia circa l’ora in cui rincasava la sera mio fratello Lucio, il più grande dei maschi.

          La grande paura era quella dei bombardamenti: suonavano le sirene degli allarmi e bisognava scendere al piano terra in un magazzino adibito a rifugio per tutti gli abitanti del nostro condominio. Mia sorella, la più grande dei quattro fratelli, strillava, tra le proteste di mia madre, che, se era di notte, preferiva che si lasciasse dormire il piccolo, che ero io. Mia nonna, una friulana alta e solenne, che con la zia era venuta ad abitare con noi dopo la morte di mio padre, avvenuta quando io non avevo ancora una anno,  non voleva saperne di scendere perchè non voleva fare la fine del sorze. Insomma, ogni volta era una grande confusione. In verità, in Campo Santa Margherita, a pochi passi da noi, c’erano due enormi rifugi collettivi per gli abitanti della zona, due lunghi salsicciotti in cemento armato, ma noi non ci siamo mai andati e credo non li usasse nessuno. Erano molto frequentati di giorno dai ragazzini, che si divertivano a risalirne di corsa i fianchi inclinati per poi scendere usandoli come scivoli. Di giorno, gli aerei nemici si vedevano piccoli e argentei, altissimi in cielo, spesso contornati dagli sbuffi di fumo della contraerea, e, provenienti dal mare, si dirigevano verso la terraferma a scaricare le bombe su Porto Marghera e gli altri obiettivi dell’interno.  Venezia fu sempre risparmiata, salvo il porto, una volta, verso la fine della guerra, ma io ero terrorizzato ogni volta che vedevo gli aerei sorvolarci.

       In Campo Santa Margherita, oltre ai rifugi, c’erano anche due cisterne di ferro, due grandi cilindri orizzontali, da cui derivavano dei tubi con tanti rubinetti dai quali si andava ad attingere l’acqua, ogni volta che i bombardamenti in terraferma avevano danneggiato l’acquedotto. E anch’io collaboravo agli approvvigionamenti domestici, facendo la fila con la mia bottiglia. Le file erano comunque all’ordine del giorno, per qualsiasi cosa. Io ricordo bene quelle per le patate: quando si spargeva la voce che ne era arrivato un carico, si formava immediatamente, davanti ad un certo negozio del Campo, una coda interminabile che lo attraversava tutto nel senso della larghezza e la mamma mi metteva a tenere il posto, per venirmi a prelevare dopo un paio d’ore.

         Il tema alimentare, anzi, per dirla tutta, della fame, era in quegli anni dominante. C’era il razionamento (il tesseramento, così chiamato, perchè funzionava con un complicato sistema di tessere e bollini): per il resto si cercava di arrangiarsi in tutti i modi, o cercando cibi in campagna, dai contadini, o ricorrendo, quando c’era, alla borsa nera. Ricordo che un giorno comparvero, appese alla cappa del camino della cucina, due grandi forme di provolone, che la zia era riuscita a procurarsi chissà come, ma fu subito chiarito che erano intoccabili, perchè venivano tenute da parte per l’assedio. Uno dei timori diffusi era quello che il ponte translagunare venisse bombardato e fossero totalmente interrotti i pur scarsi rifornimenti alla città. Vivissima era ancora la memoria storica, in fondo si trattava di meno di cent’anni prima, dell’assedio, quello reale, subito da Venezia da parte degli Austriaci, durante l’insurrezione del 1848 – 49. quando il ponte, allora soltanto ferroviario, inaugurato appena due anni addietro, era stato interrotto dai veneziani dopo la caduta di Forte Marghera, per impedire l’invasione della città da parte dell’esercito nemico. Era l’epopea de il morbo infuria, il pan ci manca, secondo la nota poesia patriottica di Arnaldo Fusinato, che era rimasta impressa nell’immaginario popolare. Fortunatamente una mattina ci si accorse che una delle forme di provolone era stata intaccata dai topi, bestiole che infestavano allora tutte le abitazioni veneziane, e, fra il giubilo di noi bambini, fu deciso di dar fondo al formaggio e di mangiarcelo, dopo avere diligentemente, ma senza esagerare, ritagliata e gettata via la parte lesa. Della vicenda di Forte Marghera la zia mi aveva qualche volta parlato, perchè vi era stato coinvolto suo nonno, cioè il mio bisnonno, un ventottenne mestrino, originario del Miranese, che aveva partecipato alla difesa del forte. Raccontava la zia che, quando le fortune  militari stavano precipitando e si era perduta ormai ogni speranza, i giovani difensori un po’ per rincuorarsi e un po’ forse per spirito goliardico, si volgevano indietro dagli spalti agitando le braccia e gridando Avanti naltri mile! Avanti naltri mile! Immaginando così di impressionare il nemico, mentre, in realtà, alle loro spalle non c’era praticamente nessuno e non si vedeva l’ombra di possibili rinforzi.

      Sempre in materia di rifornimenti alimentari, per concludere un po’ questo capitolo, ricordo che la zia, che lavorava come impiegata in un ufficio del centro, tornando a casa con il traghetto da San Samuele a Ca’ Rezzonico, quando la gondola era a metà del canale (dove l’acqua è più pulita! precisava lei) riempiva d’acqua salata una grossa pentola che poi, portata a casa, veniva messa sulla cucina economica a bollire e bollire, finchè l’acqua evaporava tutta e rimaneva il sale, elemento prezioso quanto scarso.

       Verso la fine della guerra, all’inizio della primavera del 1945, ci fu l’unico bombardamento di Venezia e fu centrata alla Marittima una nave carica di munizioni. Lo scoppio fu tremendo e lo spostamento d’aria investì buona parte del settore occidentale della città. Io ricordo nitidamente quel fatto, perchè avvenne di mattina, durante le ore di scuola. Udita la sirena dell’allarme fummo portati al pianoterra, nel rifugio dell’edificio, che altro non era che lo stretto portego del palazzo, rinforzato con qualche travatura. In linea d’aria eravamo a meno di duecento metri dalla nave e gli effetti furono devastanti. Dal cortile, in terra battuta, entrò nel rifugio una nuvola di sabbia che ci fece tossire tutti e quando, cessato l’allarme, con alcuni ardimentosi risalii nelle aule al primo piano per recuperare il cappotto e la cartella e quelli dei miei compagni vidi gli intonaci crollati sparsi sul pavimento, i vetri delle finestre rotti e le porte sventrate.  Tornato a casa, un po’ più distante, trovai anche lì, sia pure in misura minore, altri danni.

        Ma dopo qualche settimana vennero finalmente i giorni della liberazione, che mi furono annunciati dalle grida e dai pianti di mia madre che aveva trovato al mattino una lettera commovente e piena di spunti patriottici (Mamma, il mio posto in questo momento è fra i miei compagni, per l’Italia bella!…Mamma! Domani Venezia tornerà italiana! W l’Italia!) di mio fratello Lucio, diciassettenne, che la sera prima non era rincasato ed era andato ad arruolarsi con i partigiani che provvedevano, in attesa dell’arrivo delle truppe alleate, al presidio della città dove i tedeschi si erano arresi al C.L.N.. Mia madre era vedova da sei anni ed era disperata, tremando per la sorte di questo suo figlio che era il maschio più grande di casa. Fu allestito una sorta di altarino sul comò della camera da letto, con immagini sacre e candele accese, e le donne di casa si alternarono nella recita di preghiere e rosari.

        Questo mio fratello, in verità, da almeno un anno partecipava, con i ragazzi della parrocchia, ad attività clandestine, distribuiva volantini, aveva partecipato ad un tentativo, fallito, di attentato ad una sede del Fascio, aveva compiuto una rapina, con un ferito, per procurare armi. Soprattutto era riuscito a sottrarre moduli e timbri al sottufficiale tedesco del quale era alle dipendenze nello stabilimento della Todt di Marghera, dove era stato infilato per evitargli una futura deportazione in Germania, quando avesse raggiunto l’età necessaria. Queste carte, corredate delle firme false che aveva imparato a fare, servivano per far evitare il servizio militare ai suoi amici più grandi. Un giorno mia madre, che subodorava ogni cosa, preoccupata per le voci di perquisizioni  nelle vicinanze, frugò nella scrivania del ragazzo e trovò i documenti, assieme ad una bomba a mano tedesca e due pistole con relative munizioni. Mise il tutto in una sporta della spesa, lo coprì con un paio di verze e mandò mio fratello Tito, dodicenne, a portarlo al parroco: digli di tenersi lui questa roba! Ricordo ancora la scenata furibonda che fece Lucio quando rincasò e seppe dell’accaduto.

        Intanto le vicende della liberazione procedevano: mia madre aveva  esposto, come molti altri, la bandiera tricolore alla finestra e rimaneva affacciata, tra una preghiera e l’altra, a seguire incuriosita gli avvenimenti, mentre mia sorella, paurosissima come sempre, la tirava per la sottana insistendo perchè si ritirasse all’interno. Finchè un tale dalla strada, agitando una pistola non le urlò: tirè drento quela bandiera! Lassè fora solo el rosso! La bandiera fu ritirata integralmente. Poi le imposte furono chiuse, perchè, quasi di fronte, dalla casa del Fascio, dove si erano barricati alcuni irriducibili, si sparava intensamente. Di quei giorni mi resta il ricordo dell’oste che aveva la bottega sotto casa, ma abitava al piano sopra del nostro, che, visibilmente brillo, aveva piazzato una botte in mezzo al rio terà dei pugni  e offriva da bere gratis a tutti quelli che passavano.

       E finalmente gli alleati arrivarono: ci fu un continuo frastuono di aerei che volavano a bassissima quota sulla città e quindi si vedevano grandi, si potevano distinguere tutti i dettagli. Io ero terrorizzato, perchè avevo  imparato ad aver paura  degli aerei, quelli piccolissimi, che volavano alto e che portavano i bombardamenti: figuriamoci questi mostri! Avevano un bel dire gli adulti, per tranquillizzarmi, che  questi erano amici, non bombardavano, non c’era di che aver paura. Furono necessari diversi giorni per abituarmi all’idea. Mio fratello Tito mi accompagnò anche a Piazzale Roma, dove si poteva veder una moltitudine di jeep che scorrazzavano e anche lì c’era da aver paura, perchè montavano sui marciapiedi senza riguardi e bisognava scansarsi. Ma la paura più grande era per gli indiani, i Gurka inquadrati nell’esercito inglese: erano altissimi, quasi due metri, col turbante e grandi barbe e baffi neri. Mi incutevano un autentico terrore e appena ne vedevo uno giravo al largo. I soldati americani, invece, erano ricercatissimi da noi bambini, perchè distribuivano a piene mani caramelle e gomma da masticare, e questa era un’autentica novità, una cosa mai vista.

       Fra le grandi novità dell’immediato dopoguerra una delle principali fu certamente la Coca Cola. Da noi ci fu un giorno, dopo pranzo, una specie di consiglio di famiglia in cui, soprattutto su spinta della mamma, curiosissima di ogni novità, fu deciso di affrontare la spesa e di spedire Tito all’osteria preferita Alla città di Trani, in Campo Santa Margherita, a comperare una bottiglietta della nuova bevanda che stava imperversando, per assaggiarla e sentire se era davvero tanto buona. Il contenuto della bottiglietta fu religiosamente diviso tra i presenti e il responso fu unanime e senza appello: era uno schifo.

       Passato il marasma delle prime settimane, tornata l’illuminazione pubblica e le vetrine luccicanti la sera, cose per me assolutamente inedite, la famiglia riprese le consuetudini normali e una domenica pomeriggio la zia mi portò in passeggiata in Piazza San Marco, una meta per me ben nota e abituale. Rimasi di stucco: la Basilica aveva cambiato faccia: non era più coperta di tavole e sacchi di sabbia, come l’avevo sempre vista e come credevo fosse stata costruita. Era scintillante di mosaici, di dorature e di colori, una cosa fantastica che dovettero spiegarmi ben bene.

       Cominciava così anche per me un’era nuova, nella quale ancora almeno per tutti gli anni quaranta non sarebbero mancati privazioni e stenti, ma la luce delle strade e i colori di Piazza San Marco contagiavano le persone e anche i bambini sentivano che tutto era cambiato, cambiato in meglio, c’era entusiasmo, speranza, voglia di vivere, era tornata l’Italia bella.                                                                         

                                                                                          Marino Cortese

Venezia, 31 marzo 2016

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