DEMOCRAZIA LIQUIDA

di Cino Casson

Non ho chiesto di parlare, l’altra sera, nell’assemblea del Circolo PD di Cannaregio; ero tentato di farlo dopo che Antonio Rosino ha manifestato il suo pessimismo; non solo sulle sorti del PD – cosa che potrebbe interessare solo chi in esso si riconosce – ma sulle prospettive democratiche in generale. Condivido il suo pessimismo, ma avrei dovuto argomentare a lungo, mentre, giustamente, c’era un limite di tempo. Espongo per iscritto qualche riflessione.

Sono ormai molti i filosofi della politica, i sociologi, i politologi, che si interrogano sull’evoluzione della democrazia e sul suo futuro, talvolta prevedendone uno sviluppo peggiorativo, tale da farle perdere i caratteri fondativi; naturalmente vi è anche chi tale rischio non paventa, ma, anzi, considera un certo tipo di evoluzione come un miglioramento: io mi colloco tra i primi. Mi pare riconosciuto largamente che viviamo in un mondo dove si stanno affermando culture irrazionaliste, sia di tipo religioso che laico, che privilegiano appartenenze, identità, sentimenti forti e pensieri deboli; che, a fronte della complessità, rispondono con il rifiuto di addentrarvisi, risolvendone i problemi con la tecnologia o riproponendo arnesi ermeneutici irrimediabilmente tramontati.

Considero l’irrazionalità il peggiore dei mali; ne sconsiglio l’uso anche nella vita privata, ma ammetto che, talvolta, ci si possa lasciar andare alle passioni, trovandone gratificazione. Penso che nella dimensione pubblica, politica, invece, la razionalità sia assolutamente necessaria: perché la politica non deve dare gratificazioni, ma soluzioni. Perciò considero peggiorativa una evoluzione in senso irrazionale della democrazia.

Uno dei primi a parlare di “post-democrazia” è stato Ralf Dahrendorf, in un libro-intervista: “Direi che siamo già entrati in una fase che potremmo definire “il dopo-democrazia”, ma che questo non ci esime, anzi ci obbliga, a lavorare alla costruzione di una “nuova democrazia”.“[1] Una delle questioni cruciali è individuata da Dahrendorf  nella “dimensione”; la democrazia sarebbe un sistema funzionale allo Stato-Nazione, ma non adeguato alla dimensione della globalizzazione.

In effetti è difficile vedere sistemi democratici – che sono la regola solo negli stati di cultura liberaldemocratica occidentale – estesi ad istituzioni sovranazionali, dove convivono, piuttosto conflittualmente, stati retti da regimi politici assai diversi. L’esempio dell’ONU è illuminante. Vi co-siedono – non con-vivono – la Francia della laicità e l’Arabia Saudita del fondamentalismo islamico; una parte degli stati membri non ha mai approvato la Dichiarazione Universale dei Diritti; nel Consiglio di sicurezza esiste ancora il diritto di veto delle potenze vincitrici nella seconda guerra mondiale, roba di sessant’anni fa; nell’assemblea generale il voto della Germania conta quanto quello di Trinidad. Democrazia? Risento Totò “Ma mi faccia il piacere!” Molte decisioni di grande impatto sulla vita  degli esseri umani sono assunte da organismi sovranazionali e molti di questi sono organismi non politici, al funzionamento dei quali non si applicano le regole della democrazia. Dovremmo cominciare a porci la domanda se il metodo democratico, cioè la partecipazione del demos, anche nella più diffusa forma della rappresentanza, alle decisioni, sia sempre il migliore, o se vi siano ambiti e temi che possono essere meglio affrontati con metodi diversi. Non credo che le decisioni del Fondo Monetario Internazionale o della Banca Centrale  Europea possano essere assunte con la partecipazione dei cittadini, sia per ragioni dimensionali, sia per inadeguatezza di competenze.

C’è chi pensa che la partecipazione a tutte le decisioni possa essere assicurata dalla diffusione della comunicazione via web (fenomeno Grillo): è una deriva molto pericolosa. L’idea che con la risposta telematica – o, peggio, con le 140 battute di un “tweet” – si possa sostituire la discussione, l’approfondimento, il confronto di opinioni, la ricerca e il formarsi di opinioni condivise, è demenziale; ed è la fine della democrazia, che è dialogo, che richiede capacità di ascoltare e farsi ascoltare, di convincere ed essere convinti e, infine, di assumere decisioni: come farlo giustapponendo comunicazioni “solitarie”? E la sintesi, chi la fa? Un guru? Che, magari, può “bannare” chi dissente?

Anche ammettendo, poi, che si riuscisse a regolare un sistema di consultazione 2.0, come assicurare una informazione sufficientemente ricca, per garantire una adeguata competenza? Perché mi pare evidente che nessuno può essere in grado di poter dire una parola sensata su tutto. Questo, per altro, è sempre stato vero, non è effetto della globalizzazione, ma certamente la globalizzazione ha fatto da moltiplicatore. Insomma, non è mai stato vero che la “cuoca di Lenin” potesse governare la Russia sovietica, ma governare le politiche planetarie sarebbe impossibile anche per uno “chef” a tre stelle (figuriamoci per un guitto a 5 stelle!). E, allora? Se la democrazia funziona poco e male, qual è l’alternativa? Non lo so, non sono così presuntuoso da pretendere di saperlo; so soltanto che non mi convincono alcune convinzioni che si vanno diffondendo. Innanzitutto l’esaltazione degli strumenti della cosiddetta “democrazia diretta”. Dove “diretta” si può leggere “senza intermediari”, ma, anche,  “diretta da qualcuno” che fa appello a pancia, fegato, cuore … insomma, a tutto fuorché la ragione.  Il “lato oscuro” della democrazia è sempre stato il suo essere un metodo quantitativo; se eliminiamo ogni filtro, ogni mediatore, partiti, associazioni, istituzioni culturali, restano i sondaggi, che si prestano alle avventure più truffaldine,  e i referendum, che riducono a codice binario ogni questione, anche le più complesse. Con buona pace di Gaber, non è vero che “libertà è partecipazione”, libertà è comprensione. E per comprendere bisogna, innanzitutto, voler comprendere e, poi, saper comprendere. E l’altro grande ostacolo all’affermazione di una democrazia guidata dalla razionalità è il legame – necessitato – tra potere e consenso. Sembra – e forse è – un dilemma circolare, senza uscita. Per esercitare, in nome del popolo, i poteri di governo, occorre acquisire, del popolo, il consenso. Si dice tanto – anche troppo – della diffusione del populismo. Ma come conquistare il consenso di un elettorato sensibile soprattutto a sollecitazioni irrazionali o irragionevoli, senza fare qualche concessione al populismo? Perché – piaccia o non piaccia – il primo, irrinunciabile presupposto per poter realizzare il migliore dei programmi di governo, è vincere le elezioni. E i voti, in democrazia, si contano, non si pesano; “una testa, un voto”, le teste si contano e quelle vuote contano come quelle piene. Perché esistono le teste vuote, ma la democrazia non fa distinzioni. Ed è inevitabile che sia così, perché non esiste un criterio oggettivo per distinguere. È sempre stato così, ma, fino all’irruzione dei “social media”, le idee si trasmettevano attraverso la parola scritta su libri e giornali; la vera differenza è che, allora,  la gran massa degli ignoranti era consapevole della sua ignoranza e evitava di “esporsi” su questioni delle quali non aveva alcuna contezza. Oggi, nonostante sia evidente che quasi tutti sanno quasi niente su quasi tutto, tutti rivendicano – in nome della democrazia, s’intende – il diritto di sparare cazzate su quasi tutto. E di eleggere rappresentanti incapaci, incolti, incoerenti, ma capaci di sfruttare tutte le pulsioni più istintuali, la paure meno motivate, i desideri meno realizzabili. Se questo è il quadro, i sistemi elettorali sono, sostanzialmente, indifferenti. Personalmente preferisco quelli di tipo maggioritario (considero quello francese il migliore), ma non mi illudo che, da solo, assicuri una rappresentanza ottimale. Credo che ricordiamo tutti le prime elezioni con il Mattarellum (che resta, comunque, un sistema abbastanza buono); nel collegio di Venezia la Lega presentava un piccolo imprenditore muranese, praticamente sconosciuto e con un fatto personale con la lingua italiana, il centrosinistra presentava un docente universitario: vinse il candidato della Lega. E nulla, purtroppo, fa presagire che un ottimo candidato di centrosinistra la spunterebbe su un emerito somaro, selezionato con i “click” in rete dei pentastellati. Alle vecchie appartenenze di classe – che pure sono state causa di molti guai – il “popolo sovrano” ha sostituito l’appartenenza a quella che David Riesman (nel 1949!) definiva “La folla solitaria”, una indistinta massa eterodiretta, che dà l’illusione, essendo in tanti, di essere dalla parte della ragione.

Forse l’unica soluzione sarebbe il sorteggio? La questione sta uscendo dal novero delle idee bizzarre per acquisire la dignità di una delle possibili nuove forme di democrazia. Una classe politica selezionata dal caso sarebbe, molto probabilmente, per mero calcolo statistico, rappresentativa delle diverse fasce sociali e delle diverse opinioni. Magari anche più di adesso, se solo guardiamo alla composizione del Parlamento, con alcune categorie sociali decisamente sovrarappresentate. E non dovrebbe sentirsi vincolata ad alcuna promessa elettorale. E, non dovendosi accattivare consenso per una rielezione, potrebbe operare scelte senza preoccuparsi delle reazioni. Fantasie? Forse, ma, in fondo, sarebbe un ritorno all’antico, agli Arconti ateniesi, nominati annualmente per sorteggio.

Dobbiamo a un grande maestro, scomparso pochi giorni fa, Zygmunt Bauman, la definizione di “liquida”, per indicare il carattere fondamentale della società contemporanea. Sono spariti gli ancoraggi “solidi” , nel bene e nel male, del ventesimo secolo: la grandi ideologie – che hanno generato, anche, i grandi totalitarismi – le innovazioni tecnologiche “hard”, l’impresa fordista; sopravvive, ma come un incubo, il pachiderma della pubblica amministrazione, diplodoco in un mondo popolato da velociraptor. Mi servo di una bella immagine di Gianni Cuperlo. Comprare su Amazon è molto comodo; si riceve, in poche ore, quello che si è scelto in un catalogo immenso, spendendo meno e con la possibilità di recesso se insoddisfatti. Poi si vedono gli enormi magazzini, con giovani che corrono in continuazione, a reperire la merce, imballarla, farla partire: un lavoro stressante, spesso poco pagato. Il cittadino sensibile avverte il disagio, ma vede, anche, il suo interesse. Come lavoratore sente solidarietà con i lavoratori di Amazon, ma come consumatore non sa rinunciare ai vantaggi. La “liquidità” mette in crisi, non ci dà la possibilità di decidere, una volta per tutte, da che parte stare. Per questo le due risposte che si confrontano mi sembrano, entrambe, insufficienti. Piantare pali nel fondo limaccioso, sperando di costruire una piattaforma sufficientemente solida? O insegnare a nuotare? La prima risposta pecca di lentezza e, comunque, di instabilità; la seconda spinge ad un individualismo esasperato, dove qualcuno affoga.

Sarà ancora vero che democrazia significa governo del popolo? E, soprattutto, che il popolo sia un insieme consapevole di cittadini? Perché solo un insieme consapevole di cittadini – consapevoli dei loro diritti e obblighi, consapevoli del loro valore anche individuale – è un popolo. Diversamente è una mandria.  “ … se un popolo si desta, Dio combatte alla sua testa”, scrive Goffredo Mameli. Già; belll’Olimpo:  Grillo, Salvini, Brunetta … e anche a sinistra …  Per fortuna sono ateo.

Cino Casson

 

[1] R. Dahrendorf, “Dopo la democrazia”, a cura di A.Polito, Roma-Bari, 2001

Lascia un commento