Immagine, immaginare, sognare… questa è l’essenza della nostra città. Una città dove l’immagine è determinante. Non si riflettono le immagini della vita nell’acqua che ci circonda? Non è la nebbia elemento che altera e deforma le immagini stesse? Per quanto riguarda l’immaginazione poi siamo veramente al top, chi poteva immaginare una città di pietra tra acqua e sabbia? Chi poteva supporre merletti di filo, vetro e marmo tra un isola e l’altra? E poi resta la forza di sognare: ha sognato così forte Marco Polo da trovare la via per l’oriente, hanno sognato cosi futuristicamente i fratelli Zen da arrivare in America un secolo prima della sua scoperta, sogniamo noi tutti di vivere in una città vera e forse ce la faremo a ritrovarla…
Ma intanto ieri mattina sono stata con Pierluigi Olivi a visitare un luogo d’immagine, illusione e sogno per eccellenza.
Qui a Cannaregio a pochi passi da noi in una calletta dietro il bacaro “La Vedova”, c’è un monoblocco dove ha sede “la Fabbrica del Vedere” che per citare la loro pagina web “…è uno spazio in cui si approfondiscono i temi dell’immagine in movimento, dal cinema sperimentale al video d’artista. È un luogo di studio e di visioni, in cui si discutono le idee del presente e si possono mettere alla prova sistemi di riproduzione antichi.
È una vera fabbrica perché è stata fondata per lavorare, con lo sguardo e coi pensieri. Situata a Venezia in Calle del Forno, La Fabbrica del Vedere è costituita da un luogo d’incontri, esposizioni e workshop, e – al piano superiore – da videoteca, biblioteca e deposito dei materiali (incisioni e stampe, fotografie e pellicole, nastri magnetici e codici digitali e relative apparecchiature) che testimoniano quello che Gian Piero Brunetta chiama “il volo dell’icononanuta”. La sede ed i materiali sono visitabili e consultabili su appuntamento.”
Carlo Montanaro il suo curatore ci riceve e ci fa girare tra stanzette stracolme di video e cassette, libri sul cinema, macchine fotografiche di tutti i tempi. Veramente affascinante, luogo magico dove è racchiusa parte della storia di questa città e non solo.
Carlo ci fa vedere un documento dove sono riportati i nomi ed i dati sui cinema che erano parte della vita della città.
Negli anni 20 quando Venezia centro aveva circa 175.000 abitanti, in città c’erano 120 sale cinematografiche… si 120 sale e salette dove i veneziani di ogni censo e ceto si assiepavano per vedere ed immaginare le vite, loro e degli altri.
Ed ora arriviamo a noi, quelli che frequentano il circolo Anita Mezzalira/Franca Trentin Baratto, bene in questo nostro stanzone c’era tra il 1909 ed il 1910 una sala con il nome di “Cinema Orientale” chiamato anche Salone Colombo ed era gestito ( sicuramente nel 1911) dal signor Ernesto Meneghetti, successivamente la nostra stanza divenne il Cinema Tripoli, gestito da Ettore Veronese, e ne restano tracce nella pubblicistica d’epoca fino agli anni 1923/1924.
Quindi quando in qualche sera clandestina proiettiamo film contro la parete del fondo, non facciamo che perpetuare una storia che dura da cento anni.
Quindi quando appassionatamente ci riuniamo per discutere e sognare un mondo, una città ed un partito migliore lo facciamo nel luogo assolutamente più indicato.
A pochi passi c’era il cinema Santa Sofia, poi divenuto Progresso. In questo cinema fu girata nel 1972 qualche scena del film “Chi l’ha vista morire” di Aldo Lado con musiche di Ennio Morricone. Queste immagini oltre all’insegna sono rimaste le uniche memorie di questo cinema.
I Germani, i Lucchesi, i Greci, i Siriani e il “morbo contaggioso”
Erano due ed ora, dopo aver espletato tutte le pratiche necessarie, sono diventati quattro i Germani che vivono intorno a Sant’Alvise. La gente racconta che i primi due sono arrivati dopo una grande acqua alta, mentre gli altri due –e di questo ne sono testimone- sono apparsi solo quest’estate e uno di questi probabilmente è anche un incrocio: forse non è un vero Germano.
Fanno un grande rumore starnazzando per allontanare i gabbiani reali e si sollazzano al sole sui resti delle assi che portavano alle barche sotto le mura del Convento di Sant’Alvise (Convento che rischierà presto di essere venduto come tanta parte di Venezia).
Poco più in là, sempre a Cannaregio, esiste un’altra isola forse poco conosciuta, ma con una grande storia: l’isola dei Servi.
Per secoli l'andamento demografico veneziano fu dominato dalla peste: la Morte nera. Secondo i dati dei censimenti militari, nel 1200 i veneziani erano 80.000, nel '300 si stimavano in almeno 160.000, in tutta l'area lagunare, dei quali 120.000 abitanti nella città.
Nell'autunno del 1347 una galera veneziana da Caffa portò in Italia i topi impestati. Nei diciotto mesi che seguirono morirono di peste i tre quinti dei veneziani, dati desunti dai censimenti del 1347-1349.
Nello stesso periodo (in realtà qualche anno prima) la Toscana fu sconvolta dalle lotte politiche fra Guelfi e Ghibellini, le persecuzioni messe in atto da Uguccione della Faggiola e di Castruccio Castracani indussero molti lucchesi, tra il 1309 e il 1317, ad abbandonare la loro città natale per sfuggire a morte sicura. In maggioranza artigiani grandi esperti nella produzione di tessuti di seta di qualità, trovarono subito un sicuro (ed interessato) asilo a Venezia.
Qui giunti, nel corso del 1360 i lucchesi ottennero dal Governo il permesso di riunirsi in confraternita posta sotto la protezione del Volto Santo e la piccola, ma fiorente comunità, strinse accordi con il Prior generale dei padri Serviti, il quale concede che lungo la navata destra della chiesa, detta appunto dei Servi, i lucchesi iniziassero la costruzione di una cappella.
Nel 1398, i lucchesi acquistano, ancora dai padri Serviti, un "terren vachuo mezo in la contrada di San Marcuola lo qual'è per mezzo la Chiesa oltre l'orto", dove essi diedero alacremente inizio a "fabbricare due rughe o strade di case", alle quali altre case ancora si aggiunsero per acquisto. Venne così costituito un vasto ricovero, destinato all'assistenza dei confratelli poveri, che secondo le cronache contemporanee formava una specie di castello, circondato dall'acqua del rio de la Madalena (a ovest), rio (poi terà) de San Marcuola (a nord) e da rio dei Servi (a est), avente nel mezzo un pozzo comune con intorno diversi ingressi a separate abitazioni, la quale unione di case prese rapidamente il nome, nei documenti pubblici, di corte del Volto Santo.
Ancora gravi flessioni demografiche si registrarono a seguito delle due pestilenze del 1575-1577 e del 1630-1631: ciascuna falciò un terzo della comunità veneziana. Nel novembre del 1631 la peste fu definitivamente debellata, ma il bilancio fu terribile: quasi 47.000 morti in città (più di un quarto della popolazione) e 95.000 nel cosiddetto Dogado, che comprendeva anche Murano, Malamocco e Chioggia.
La nuova crisi demografica fu affrontata dal governo con un altro provvedimento di ripopolamento come quello del 1576 e, il 18 novembre 1631, il Senato permise che per tre anni chiunque, «cosi terriero come forestiero, suddito et non suddito», potesse esercitare qualsiasi arte in città, pagando le solite buone entrate, le luminarie e i contributi pubblici di Venezia, in modo da ovviare alla mancanza di operai «cagionato dal male contaggioso» (*)
Il Governo veneziano vedeva con favore l'immigrazione per dare impulso all'attività commerciale ed industriale: senza queste "fresche" ondate migratorie Venezia sarebbe inevitabilmente decaduta.
E nei diversi secoli dalla Persia arrivarono gli Armeni, commercianti che ebbero un’importante peso sociale e che popolarono specialmente la zona di San Zulian e di Ruga Giuffa (Giulfa, città sotto la sovranità persiana, sulla riva settentrionale del fiume Araxe, nel Nakhitchevan meridionale). Negli anni successivi al 1492, cacciati dalla Spagna, arrivarono gli Ebrei in tale numero da spingere il governo della Repubblica a istituire il Ghetto ebraico nel 1516, e poi altre comunità ebraiche arrivarono dall’Europa centrale e specialmente dall’attuale Germania, altri ancora dall’oriente (Sinagoghe Spagnola Tedesca e Levantina).
Già all'epoca dell'Impero Bizantino, la presenza di mercanti greci nella città lagunare era frequente ma già dopo la Quarta Crociata (1204) l'insediamento a Venezia di abitanti di varie regioni greche fu ulteriormente agevolato e fu soprattutto la minaccia turca a costringere, dall'inizio del XIV secolo in avanti, numerosi greci ad abbandonare la loro patria ed a chiedere asilo presso la Serenissima.
Dopo la caduta di Costantinopoli (1453), il numero dei profughi aumentò notevolmente e si calcola - forse con qualche esagerazione - che la popolazione complessiva dei Greci raggiungesse nel 1479 le quattromila persone circa.
La peste in casa propria con gli sconquassi demografici conseguenti, le rivolte ed i problemi politici che spinsero popolazioni intere a spostarsi, sono stati gestiti da Venezia sempre con grande spirito di apertura ma anche badando alle proprie necessità. L’esodo forzato dal centro storico e dall’estuario, l’aggressività del turismo, la ridotta natalità e la deindustrializzazione della terraferma sono il “morbo” di questi ultimi 50 anni; ora va gestito il ripopolamento con apertura ed intelligenza chiamando chiunque, «cosi terriero come forestiero, suddito et non suddito», potesse esercitare qualsiasi arte in città, pagando le solite buone entrate, le luminarie e i contributi pubblici di Venezia, in modo da ovviare alla perdita di popolazione «cagionata dal male contaggioso» di questi anni.
Dopo gli Armeni, i Lucchesi, gli Ebrei di Spagna, dell’Europa centrale e del levante ed ai Greci, potremmo aprire ora le porte ai Siriani e a chiunque abbia diritto all’asilo e la voglia di portare le proprie “arti” e culture e a costruire la propria vita nella nostra città e nel rispetto della nostra Venezia.
articolo e foto di
Guido Sattin
figlio di Francesco Sattin (cognome del polesine)
nipote di Elisabetta Zanuso Straub (cognome svizzero tedesco)
figlio di Liana Milner (cognome austriaco)
nipote di Eloisa Viterbi (cognome ebraico)
Le foto
Germani a Sant'Alvise
Schola dei Lucchesi
Vera da pozzo
nella corte dietro la Schola dei Lucchesi
Patera
Volto Santo nella Schola dei Lucchesi
Popolazione a Venezia (intero comune) (**)
anno
1871
1971 (*)
2015 (***)
popolazione
164.600
363.002
264.408
(*) compresi circa 11.000 abitanti del Comune di Cavallino-Treporti costituitosi nel 1999
(**) Dati del Servizio Demografico del Comune di Venezia
(***) Alla data del 25/09/2015
(*) (ASV, Senato Terra, f. 362, Parte presa dell’eccellentissimo Conseglio di Pregadi, 18 novembre 1631. La parte fu pubblicata il 20 novembre sopra le scale di San Marco e di Rialto e ribadita il 30 gennaio 1632.)
Pietas - 31 luglio 2015
A Cannaregio c’è un’edicola verde posta da chissà quanto tempo in una calle senza neanche un “nizioleto” che ne indichi il nome; si dovrebbe chiamare calle Larga e, comunque, è quella calle che dalla fondamenta degli Ormesini porta al Campo dei Mori.
Costruita dai nostri avi (è della fine del 1600), l’edicola è cadente nonostante un restauro fatto a spese di un benefattore qualche anno fa. No so a quale santo sia dedicata, ma immagino quante persone si siano segnate passandoci davanti e magari si siano anche fermate a pregare per se o per i propri cari.
Chissà, forse un tempo si è fermata anche la “nonna del Campo dei Mori”, che forse non era di quel campo ma magari della Madonna dell’Orto o di qualche calle giù di la.
La ”nonna dei Mori” ci ha lasciati senza però lasciarci veramente. Se la sono dimenticata i parenti che erano in terraferma, se la sono dimenticata in uno dei nostri ospedali, se la sono dimenticata con il suo mucchietto di cornici, con la mente oramai persa in una malattia di quelle che poco a poco si mangiano il cervello, con una casa a Cannaregio, vedova senza figli, se la sono dimenticata anche quando ci ha lasciati.
Lei, il suo corpo, è rimasto la, ad attendere un parente, uno di quelli che fra qualche tempo venderà la sua casa di Cannaregio nella quale voleva tornare, lei è morta ma il suo corpo l’hanno lasciato la, senza portarlo a San Michele, senza alcuna “pietas”.
E così l’edicola verde verso i “Mori” e la vecchietta di quel campo, ci mostrano una Cannaregio distratta, che guarda troppo in su e non vede ciò che ci circonda e non vuole vederlo perché è inutile; inutile come solo sa essere inutile un’edicola con un santo davanti al quale nessuno si ferma più a pregare e un’anziana che morendo lascia il suo corpo che nessuno vuole portare a San Michele.
Senza “pietas” per ciò che ci circonda, per le cose e gli esseri “inutili” il nostro futuro è già finito.
E se fosse tutta colpa nostra? Soltanto nostra, di noi veneziani?
Anche noi rischiamo di essere inutili e fastidiosi per la Venezia di domani se non già di oggi. Se non sapremo accompagnare a San Michele il corpo della “nonna dei Mori” ed aggiustare l’edicola verde della calle senza “nizioleti” al centro di Cannaregio, vorrà dire che non siamo più veri uomini e donne ma esseri senza “pietas”.
PIETAS. - Divinità astratta dei Romani, che esprime l'insieme dei doveri che l'uomo ha sia verso gli uomini in genere e verso i genitori in specie ("iustitia erga parentes pietas nominatur", Cic., Part. or., 78), sia verso gli dei e che in questo caso s'identifica con la religione ("est enim pietas iustitia adversus deos", Cic., De nat. deor., I, 116). Esempio solenne di questo doppio significato di pietas lo porge Enea, il quale, mentre compie verso il padre i doveri di figlio, compie anche scrupolosamente i doveri religiosi che la sua missione gl'impone.
(Enciclopedia Treccani)
Storie d'agosto a Cannaregio
15 agosto 2015
Corto Maltese, Steiner e Tristan Bantam navigano verso Bahia per incontrare Morgana, la sorellastra di Tristan. E’ in possesso di appunti del loro padre sul continente perduto di Mû, quelli che Tristan ha intravisto nei suoi sogni, anche gli Indios predicono sarà lì il suo destino. Ma a Bahia, l’avvocato Milner cerca di uccidere Tristan, Corto lo smaschera e lo batte a poker: lui vince e Milner perde la vita. La caccia al tesoro può proseguire così verso Itapoa.
ASSO DI PICCHE
ALBO URAGANO Albi Uragano, S. Canciano 6044, Venezia Matite
prodigiose ai Miracoli
"Il gruppo di Venezia"
Hugo Pratt, Mario Faustinelli, Alberto Ongaro, Giorgio Bellavitis ... ma poi con loro Dino Battaglia, Gabriele (Lele) Vianello, Giorgio "Geo" Ussardi, Ivo Pavone, Maria Perego ... creano quello che sarà una fucina di creatività dalla fama mondiale
disegno di Lele Vianello
a Campo Santa Maria Nova, vengono prodotti 20 numeri (18 numeri + 2 supplementi) tra il 1945 e il 1947, suddivisi in 3 serie con doppia numerazione, una continua come "Albo Uragano" e l'altra relativa alla singola serie.
...la storia
Testo da:
"Un sogno preso per la coda" di Graziano Frediani.
Erano tutti intorno ai vent'anni, ed erano tutti uniti dallo stesso entusiasmo, dalla stessa allegria, dalla stessa voglia di sognare. Avevano l'America nel cuore: l'America del chewing-gum e della Coca-Cola, dello swing e del be-bop, di Glenn Miller e di Duke Ellington; l'America dei film western e dei film hard-boiled (magari con il re dei "duri" Humphrey Bogart); l'America dei romanzi di Zane Grey e di John Steinbeck;ma in particolar modo,l'America delle strips, che faceva da sfondo alle gesta degli splendidi eroi degli anni Trenta scomparsi dalle edicole per effetto del ciclone bellico (Flash Gordon, l'Uomo Mascherato, Cino e Franco, Mandrake...), ma che ora finalmente riesplodeva, più esotica e affascinante che mai, fra le pagine dei mille comic-books giunti in Italia al seguito degli uomini del generale Clark e dell'Ottava Armata di Montgomery ("Overseas Comics", "G.I. Comics", "Jeep Comics", "Camp Newspaper Service", su cui compariva "Male Call" di Milton Caniff, e "The Army Motor", che pubblicava "Joe Dope" di Will Eisner).
Erano ragazzi appassionati, anzi "innamorati di tutto", come ha detto una volta Alberto Ongaro, che, con Giorgio Bellavitis, Hugo Pratt e Mario Faustinelli, formava il nucleo-base di quel gruppo, attorno al quale si riunirono ben presto una seconda e una terza ondata di giovani veneziani, per lo più aspiranti disegnatori e sceneggiatori, altrettanto innamorati e altrettanto ansiosi di dare una propria forma espressiva alle emozioni che li bruciavano, non necessariamente soltanto tramite vignette e balloons. Messisi in società, i quattro moschettieri fondarono una Casa editrice, la Uragano Comics, e una rivista, intitolata "L'Asso di Picche". "La redazione", ha scritto ancora Ongaro, "era composta da due stanze e due terrazze sopra l'appartamento di Faustinelli, ed era una delle redazioni più gaie, chiassose e affollate che mai ci siano state nella storia dei giornali. Poteva contare su decine di collaboratori spontanei, amici e amiche dei redattori, compagni di università, lettori giovanissimi e lettori adulti che venivano a trovarci in una specie di ininterrotto pellegrinaggio. Lavorare era una festa e del clima in cui lavoravamo risentiva anche il giornale che usciva sempre in ritardo, ma comunque fresco, allegro e avventuroso".
Intorno ai ragazzi de "L'Asso di Picche" (di cui vennero pubblicati, seppure in maniera discontinua, una ventina di indimenticabili numeri) gravitavano persone di indubbio talento: Dino Battaglia e Ferdinando Carcupino, e poi Ivo Pavone e Damiano Damiani, ma anche Federico Caldura e Maria Perego, e ognuno dava il proprio contributo, più o meno diretto, a quella piccola Fabbrica di Sogni a due passi dal Canal Grande. Tra una partita di ping-pong e una bevuta, tra una smazzata di carte e una risata, nacquero un giallo d'azione, "L'Asso di Picche", protagonista un giustiziere mascherato a metà strada fra Batman ePhantom, serie umoristiche come "Pompeo Bill" e "Ray e Roy" di Faustinelli, un western di Pratt, "Indian River", un Robin Hood rivisitato da Bellavitis e l'avvincente "Junglemen” di Battaglia, imperniato su un gruppo di agenti speciali in azione nelle foreste della Nuova Guinea.
Quando, nel 1950, una potente Casa editrice argentina, l'Editorial Abril, propose ai redattori de "L'Asso di Picche" di trasferirsi in massa a Buenos Aires, alcuni, come Pratt e Faustinelli, decisero di andare, mentre altri, come Bellavitis e Battaglia (che, per altro, era davvero letteralmente innamorato, ma della futura moglie Laura), scelsero di restare da questa parte dell'Oceano. Nel giro di pochi anni, comunque, ognuno dei quei ragazzi avrebbe conquistato la sua America personale: Damiano Damiani, per esempio, sarebbe diventato regista cinematografico, Alberto Ongaro giornalista e inviato speciale, e mentre Dino Battaglia affinava sempre più le sue matite e i suoi pennini, trasformandosi, di tavola in tavola, nel più raffinato narratore grafico della letteratura a fumetti italiana, Federico Caldura e Maria Perego, intuite le potenzialità espressive di un nuovo mezzo di comunicazione popolare, la televisione, avrebbero inventato una delle più celebri tele-vedette di ogni tempo, "Topo Gigio".
sopra Dino Battaglia
Corto Maltese, disegno di Hugo Pratt
disegno di Giorgio Bellavitis
Venezia e una fisarmonica
Storie di un cantastorie
...
In quest’epoca dalla memoria corta e dalla vita veloce, è oggi più che mai necessario un cantastorie.
Gualtiero Bertelli - Nina
di
Marina Rodinò
1 agosto 2015
Prendo dall’amica wikipedia questa definizione: “…un artista di strada che raccontava con il canto una storia, sia antica, magari rielaborata, sia riferita a fatti e avvenimenti contemporanei. Le storie narrate entravano a far parte del bagaglio culturale collettivo di una comunità...
...i cantastorie si accompagnavano con uno strumento….”
La sera del 30 maggio al circolo ARCI Franca Trentin Baratto a Santa Sofia, noi ne abbiamo incontrato uno. Un signore gentile ed appassionato di nome Gualtiero, come suo nonno. Uno spettacolo bello e coinvolgente dove abbiamo ripercorso la storia di questa città che è comunque la storia del nostro paese.
La profonda impressione che lo spettacolo ci aveva suscitato ha fatto si che per un progetto di lettura estiva con altri circoli ARCI di Venezia, noi proponessimo il libro “Venezia e una fisarmonica” di Bertelli.
Si perché questo cantastorie porta con se la sua fisarmonica che lo accompagna dall’età di due anni. Bertelli che come i migliori cantastorie è un poeta, ci narra di una Venezia così profonda che è impossibile non sentire l’essenza di questa città e della sua vita e che è ancora lì, anche se siamo stravolti dai turisti e non siamo più negli anni 50, con le lotte delle famiglie per arrivare alla fine del mese, con la dignità della povertà e la volontà di guardare al futuro per loro e per i loro figli,
Che dire delle case minime della Giudecca:
“I le ciama case co un bel coragio
parchè de le case decenti le ga poco
La xe na stanza de quatro metri
Co un gabineto de queli a la turca”
Dove Roberto un suo abitante alla domanda” Ma non eravate stretti?” risponde “Nooo… siamo stati al massimo in sette… e poi ci volevamo bene!”
Adesso abbiamo povertà sommerse e meno senso di aggregazione e solidarietà.
Ma oltre a Venezia e le storie di vita dei suoi abitanti, ci sono le vicende scolastiche in una scuola difficile, anche allora, dove come diceva Don Milani “l’unico problema che la scuola ha sono i ragazzi che perde”, l’avventura innovativa della pedagogia degli anni 70 ( ma poi perché è scomparsa?) e la storia culturale e politica di un trentennio: i canzonieri popolari, l’evolversi di un modo di fare politica e cultura anche con il canto, le crisi politiche, il Manifesto , l’ostracismo del PCI, le Brigate rosse….ma soprattutto una generazione che aveva la sensazione che il mondo si potesse cambiare.
Dopo letto il libro, la mia idea è che al di là di tutto un mondo diverso sia possibile e che dobbiamo ripartire proprio da quei sentimenti e da quelle speranze, per andare ovviamente avanti per il futuro dei nostri figli.
Il titolo del libro è “Venezia e una fisarmonica” edizioni Nuovadimensione, dopo l’estate Gualtiero Bertelli si è reso disponibile a partecipare ad un incontro con i lettori per commentare insieme questo suo libro, invito tutti quelli che vogliano, a leggere il libro durante questa torrida estate, per parlarne poi insieme a lui alla ripresa delle nostre attività.
Cominciamo il prossimo anno sociale anche ripercorrendo questa nostra storia per pensare al nostro futuro di città e non solo… Luglio 2014
La fata di
San Canciano - 25 luglio 2015 (degli anziani, delle case e dei B&B)
A volte le storie si incontrano in campo. A San Canciano ne ho incontrata una, quella di una fata, un'anziana fata. La mattina molto presto era in campo, con il suo carrello, vestita sempre con lunghi abiti forse una volta anche eleganti. Negli ultimi tempi spesso con una vestaglietta. D'inverno una consunta pelliccia.
Con uno scopino puliva la vaschetta posta alla base della vera da pozzo al centro del campo, la riempiva di acqua pulita e poi, guardandosi intorno e facendomi un segno per chiedermi complicità, prendeva dal carrello pane vecchio e lo sbriciolava per i colombi. Appariva a volte al Circolo Mezzalira portando qualche vecchio libro, intervenendo con improbabili affermazioni ad un'assemblea, rimanendo in silenzio ad un concerto del Circolo ARCI Franca Trentin, sparendo poi per giorni.
Un'anziana come tante a Cannaregio, un'anziana sola, una fata perdutasi lentamente nella nebbia della decadenza fisica, mentale e sociale. Ed un giorno non l'ho più trovata.
Dopo alcuni mesi, sono riuscito a ricostruire la storia della fata di San Canciano; sola e abbandonata dalla sua mente, dalla famiglia e dai vicini, era finita al San Giovanni e Paolo, da li in una Casa di riposo e poi ....? Poi un lontano familiare l'ha adocchiata -le casualità della vita- e con lei la sua casa di Cannaregio. La fata è stata portata in un'altra Casa di Riposo in terraferma, e la casa èdiventata un caratteristico alloggio veneziano disponibile in internet per i turisti e nessuno si è più chiesto di lei.
Jacopo De Barbari - particolare San Canciano e i Miracoli
La vaschetta alla base della vera da pozzo di San Canciano nessuno la pulisce più.
E' solo una storia e le storie raccontate da chi non le vive tali rimangono.
Luglio, 2014
Ciàcole
Luni ze 'nda da
Marti parché el ghe diga a
Mercore che'l vaga zo da
Zioba che'l marcia zo da
Venere che'l vaga dirghe a
Sabo che
Domenga ze festa