25 aprile ’45 – La gioia era immensa. Una gioia collettiva.

di Giorgio Brunetti

Venezia ricordando, oggi, l’epoca di guerra.

La Venezia della mia prima infanzia coincide con il periodo della guerra. Tempi duri per le ristrettezze di vita e per la paura incombente di bombardamenti aerei, anche se i miei genitori erano convinti che Venezia per la sua unicità sarebbe stata protetta. Convinzione che ebbe qualche sbandata in occasione di due episodi: il bombardamento della Settimana Santa alla Marittima, con alcuni feriti, e il mitragliamento del vaporetto, nei pressi di Pellestrina, che produsse pure alcune vittime. La paura però persisteva, unita all’incerto esito della guerra. Al suono delle sirene d’allarme, si andava in rifugio con i vicini di casa. Un rifugio ricavato in alcune stanze a pianterreno di Palazzo Vendramin Calergi, l’attuale sede del Casinò. Si diceva che in un Palazzo ci si poteva salvare meglio che in una casa di mattoni. Mah! Stessa giustificazione per il Campanile della Chiesa della Madonna dell’Orto che accoglieva alla sua base noi allevi delle elementari dei Padri Giuseppini, quando suonava l’allarme. Si diceva che sarebbe stato difficile colpire un campanile. 

Le ristrettezze di vita erano opprimenti, anche se i miei genitori facevano l’impossibile perché non pesassero troppo sulla mia esistenza. Il freddo durante l’inverno era un compagno molto scomodo. La legna era scarsa, il carbone pure. Per risparmiare mia mamma accendeva la stufa economica in cucina solo al pomeriggio, quando dovevo fare i compiti. Spesso l’accompagnavo dal “carboner” a prendere la legna che era sempre bagnata, perché, si diceva così, pesasse di più. L’accensione della stufa si accompagnava ad un fumo intenso, talvolta soffocante. Causa era sempre la legna bagnata. La fame era un altro compagno di strada di quel periodo. Mia madre prendeva dal vicino canale – quando vi era alta marea – una pentola d’acqua salata e la lasciava bollire per tutta la notte sul fornello a gas (Venezia disponeva già allora del gas di città). Al mattino, in fondo alla pentola si depositava il sale. Con le sigarette questa era la merce di scambio per ottenere farina da polenta, fagioli, patate e altro dai contadini di Meolo, Grisolera (Eraclea), Cava Zuccherina (Jesolo) dove mia mamma ed altre donne si recavano per procurarsi questi alimenti indispensabili per vivere. Il pane era razionato. Mi ricordo che, a casa mia, si metteva in una ciotola, sotto aceto, dei bollini della tessera annonaria che, grazie all’azione dell’acido, cambiavano colore, trasformandosi da bollini normali in bollini che davano diritto ad un supplemento: non un pane, ma due. Il problema era di passare l’esame del fornaio. Casa mia aveva individuato una panettiera con qualche difetto alla vista, al ponte di Sant’Antonio alla Maddalena: ecco la scorciatoia per conseguire il risultato e avere qualche pezzo di pane in più. Anche l’acqua, ad un certo momento, venne a mancare. Un guasto, un razionamento. Non ricordo. Ricordo, invece, la camminata  verso Rio Terrà San Leonardo con secchi e bacinelle dove erano approntati, lungo una serie di tubi, dei rubinetti dai quali spillare l’acqua necessaria per lavarsi e per cucinare.

In questo periodo non posso non ricordare due momenti di gioia. L’8 settembre del ‘43 quando si pensava che la guerra fosse vicina al suo epilogo. Mio padre che ritorna a casa da Mestre dove era stato richiamato in servizio militare alla caserma Matter. Un ritorno avventuroso che, per evitare i posti di blocco sul ponte, allora chiamato del Littorio, era avvenuto in barca vogando con un amico da Campalto alle Fondamente Nuove. Una felicità presto frustrata dal rinnovo della fiducia del Re a Mussolini e dalla subitanea nascita della Repubblica di Salò. L’altro episodio di gioia avviene il 4 giugno del ‘44, giorno che coincide con la mia Prima Comunione nella Chiesa di San Marcuola. Grande festa in casa con parenti e con tanti cugini, che alla sera viene allietata dalla notizia, colta sentendo Radio Londra, che Roma è stata liberata dalla Quinta Armata. Sembrava che la fine della guerra fosse vicina. Pia illusione! Si aprirà, invece, un periodo triste e buio. L’occupazione tedesca si fa sentire in città. L’uccisione di alcuni soldati tedeschi da parte di partigiani fa esplodere la rappresaglia fascista. Alcuni cittadini vengono presi dalle loro case e trucidati in alcuni punti della città. In Calle Colombina, vicino a casa mia, uccidono un ferroviere e lasciano il cadavere fino alle prime ore del pomeriggio, avvolto da un telo bianco. Dimostrazione di tracotanza di un potere che non avrà domani. 

La liberazione è stata la fine di un incubo. Tutti a Piazzale Roma ad accogliere gli alleati (credo neozelandesi) che erano arrivati a bordo di carri armati e di autoblindo. Alcuni di questi erano anfibi, ricordo, che alcuni navigavano in Canal Grande. Anche I miei genitori non poterono sottrarsi a “portarmi a vedere i liberatori”, che dispensavano agli adulti barattoli contenenti sigarette e ai bambini tavolette di latte in polvere. Dovettero sfidare gli spari di cecchini, appostati sugli stabili, vicino al ponte delle Guglie e a quello degli Scalzi. I cecchini, si diceva, erano fascisti braccati che sparavano le ultime cartucce. Ricordo che non avvertii nulla, non sentii spari anche se il passaggio sui ponti avveniva in fretta, di corsa in piccoli gruppi di persone. La gioia era immensa. Una gioia collettiva, che si coglieva nel volto dei genitori, delle persone, di tutti. Una gioia che trasformava anche l’ambiente circostante. Tutto diventava bello, anche con le cicatrici della guerra ancora aperte. Una gioia che nella mia vita non ho mai più provato.

Degli anni successivi, del dopoguerra, ho un ricordo di una Venezia affollata ed operosa. Tanta gente in ogni dove. Tante attività artigianali lungo le fondamente del mio sestiere di Cannaregio. Ma anche molta miseria, sovraffollamento. Le condizioni igieniche delle abitazioni erano precarie. Il bagno era un miraggio per la maggior parte della popolazione, la cucina era comunicante con water, alla francese si diceva. La delinquenza era diffusa. Zone come Castello, Baia del Re e Angelo Raffaele erano off-limits. Il contrabbando di sigarette regnava indiscusso. I fermenti politici erano intensi. La passione politica, pure. I comizi in Campo Stefano per il Referendum del ‘48 erano affollatissimi. Li vedevo perché transitavo tra la gente per andare a scuola dai Padri Cavanis. In realtà, perché in quel periodo ero impegnato negli esercizi spirituali che si tenevano nel pomeriggio.

Marzo 2010

Da “Quando c’erano i Veneziani”, a cura di Caterina Falomo Studio LT2 Venezia

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